Stampa

 
Il diritto alla pensione alla luce del risultato del referendum sulla riforma della Costituzione

di Franceso Paolo Rossi, Professore emerito di diritto del lavoro dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Coord. Scientifico del centro Studi ANIV di diritto della previdenza sociale “G. BILLIA

1. Il diritto alla pensione è un diritto soggettivo pubblico in virtù del quale a tutti i lavoratori e parimenti a tutte le lavoratrici esso è riconosciuto e garantito dalla Costituzione secondo la formula contenuta nell’art. 38, secondo comma. In questa è sancito così l’obbligo indefettibile e fondamentale di garantire e assicurare ai lavoratori di cui sopra mezzi adeguati alle loro esigenze di vita nei casi di infortunio sul lavoro, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. A ben vedere, le sole forme di pensionamento sono quelle relative agli stati di invalidità o di inabilità e a quello del raggiungimento di un’età predefinita con un’anzianità assicurativa–contributiva minima nell’ambito del sistema di assicurazione sociale, invalidità, vecchiaia e superstiti. Nulla è detto per una pensione di anzianità, la quale ha rappresentato, invece, negli anni ’70, una fonte di aggressione al Fondo pensione dei lavoratori dipendenti del settore di lavoro privato.

Deve essere ben chiaro, prima di affrontare sul solo terreno del diritto positivo la disamina della funzione generale della pensione, come risulti strettissimo il legame operativo tra determinazione parlamentare di scelta redistributiva e pretesa egoistica del singolo a ricevere comunque la maggior somma possibile di danaro in trattamento pensionistico. Alcuni esempi che traducono sul piano concreto queste affermazioni e che, purtroppo, hanno dato luogo, per quanto ci consta, ad una vera e propria ingiustizia sociale vuoi per l’inescusata diversità di trattamento fatta a privati che versavano, con identiche qualità, in identiche condizioni, vuoi per l’abuso che si è fatto di pur giustissimi interventi legislativi riparatori di antiche inaccettabili discriminazioni, ci vengono e dalle leggi sui benefici combattentistici in favore dei soli pubblici dipendenti (CHIAPPELLI, Gli ex combattenti nati al momento giusto, impegnati nella guerra giusta, occupati al posto giusto, e che lasciano il lavoro al momento giusto, secondo una legge ingiusta dichiarata giusta, in Riv. it. prev. soc., 1976, 853, nota alla C. cost. 28 luglio 1976, n. 194) irresponsabilmente emanate contro e a dispetto del precetto contenuto nell’ultimo comma dell’allora vigente art. 81 cost. e dalle leggi 15 febbraio 1974, n. 36, 14 giugno 1974, n. 252, quest’ultima recante: “regolarizzazione della posizione assicurativa dei dipendenti dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di tutela e rappresentanza della cooperazione” (GU, Serie generale n. 177 dell’8 luglio 1974), 12 gennaio 1977, n. 4 e 22 dicembre 1980, n. 932, concernente, rispettivamente, la proroga al 31 maggio 1977 dei termini di cui agli artt. 2 e 8 della legge n. 252 del 1974 e la disciplina delle domande dirette a conseguire i benefici previsti a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti in forza della legge n. 96 del 1955. In particolare, è da segnalare come la legge n. 252 del 1974 sia rimasta legata al nome di Giovanni Mosca, promotore della medesima e grazie alla quale decine di migliaia tra funzionari ex PCI, portaborse ex DC e socialisti nonché, immancabilmente, sindacalisti: CGIL, CISL e UIL, hanno potuto beneficiare – spesso abusivamente – di pensioni di anzianità agevolata e di godere dell’incredibile privilegio di riscattarsi a basso costo non solo gli anni trascorsi nel partito o nel sindacato, ma addirittura quelli passati sui banchi di scuola, purché si rientrasse nelle suddette categorie beneficiarie. Il conseguente danno all’Erario, provocato da trentasettemila e cinquecento privilegiati, avrebbe superato i 25.000 miliardi di Lire, pari a 12 miliardi di Euro. Del resto, è sempre quel legame ad alimentare di continuo l’oramai superato ed anacronistico dissidio tra idea previdenziale e idea assistenziale nello specifico campo dell’erogazione, pubblica e durevole, di somme di danaro a favore di un cittadino, lavoratore o no che sia. Si pensi, per un momento, alla pensione ai superstiti, all’assegno ai cittadini ultrasessantacinquenni e alla pensione ai minorati civili per cogliere tutte le possibili interrelazioni socio-economiche e politiche che questi stessi trattamenti pongono, in termini di costante raffronto e di istanze perequative, con le pensioni ai lavoratori subordinati, autonomi o liberi professionisti. Ecco perché la ricerca e l’individuazione del fondamento politico della pensione possono aiutare a spiegare e al tempo stesso a giustificare la funzione generale della medesima.

2. Il 4 dicembre 2016 il corpo elettorale ha bocciato con il 59,11% di voti contrari le riforme costituzionali proposte dal Governo Renzi. Dallo studio dei flussi colpisce l’alta affluenza, il voto contrario di otto elettori su dieci nella fascia di età tra 18 e i 35 anni, il rifiuto della riforma nelle zone periferiche dell’Italia. Ebbene, la battuta di arresto per un insieme di riforme organiche, di cui il Paese ha urgenza, non dovrà bloccare la spinta alle riforme, che potranno comunque essere realizzate con interventi ad hoc, all’interno di un Parlamento con maggioranze qualificate e responsabili. Al punto cui è ormai pervenuta la migliore dottrina previdenziale, partitamente con riguardo all’indagine storica della lenta ma continua trasformazione del significato sociale e giuridico della pensione (da originario atto di liberalità del sovrano, avente carattere di grazia o di privilegio, a trattamento obbligatorio di quiescenza o di previdenza sorretto da un principio squisitamente mutualistico, ad obbligo, infine, dello Stato di prevedere e di assicurare mezzi di sostentamento del privato che versi in stato di bisogno economico in virtù dell’istanza politica di base di solidarietà generale), l’analisi dei vari dati di ordine istituzionale da cui può essere tratta la ragione politica del dovere pubblico dell’erogazione della pensione, non ha certo più bisogno di attardarsi nello studio delle componenti di assicurazione sociale, bensì deve partire subito ed inevitabilmente dal patto fondamentale della nostra società, vale a dire dalle coordinate logiche costituzionali che disegnano il voluto Il diritto alla pensione alla luce del risultato del referendum sulla riforma della Costituzione di Franceso Paolo Rossi, Professore emerito di diritto del lavoro dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Coord. Scientifico del centro Studi ANIV di diritto della previdenza sociale “G. BILLIA 4 L’Ispettore e la Società assetto politico, sociale ed economico della Repubblica italiana. V’è allora da dire di un compito che, descritto in termini di impegno politico, la Repubblica assegna direttamente a sé stessa e che la Costituzione detta addirittura nella parte relativa ai principi fondamentali sulla pari dignità sociale e sull’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Si tratta, cioè, del compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 comma 2 cost.). L’accento qui va posto, per quanto ci preme, sulla singola persona umana, alla quale si vuol garantire, dopo che le sono stati riconosciuti, come individuo, i diritti inviolabili, un «pieno» sviluppo, vale a dire uno sviluppo ne’ parziale ne’ deficiente, ma tale che possa segnare una sua costante ragionevole crescita non solo nel sociale, nel politico, nel culturale, nel religioso, nel sindacale e nel familiare, ma anche nell’economico. Con ciò si pone in evidenza un fattore del tutto nuovo, nella logica previdenziale, e di massimo rilievo, nella composizione degli interessi contrapposti, come portato di una società industrialmente matura, ed è il tenore di vita del privato, che di per sé si presenta come momento politico in grado di nullificare ogni frusta concezione di paternalismo assistenziale o di garantismo mutualistico, posto che esso pone una sorta di conflittuale autodifesa in termini di mantenimento e di miglioramento non più col solo e diretto riguardo alle risorse proprie dell’interessato, bensì con immediato riferimento alla ricchezza prodotta dall’intera collettività organizzata nello Stato. In questa prospettiva, si può dire che la pensione attualizzi, attraverso il riconoscimento del diritto allo sviluppo anche economico della persona umana, il principio costituzionale della pari dignità sociale dei cittadini. Conferma di ciò ben può essere tratta dall’esame dell’intera vicenda, politica e sindacale insieme, dell’adeguamento della pensione a nuove esigenze correlate a bisogni sociali da soddisfare, divenuti molto più ampi rispetto a quelli comunemente denunciati e riconosciuti come essenziali in un passato non remoto. In proposito, è appena il caso di anticipare un discorso che puntualmente riprenderemo ed approfondiremo più avanti, ed è quello relativo alla garanzia del minimo vitale e della perequazione automatica della pensione. Ed invero, con particolari strumenti giuridici si è operato, proprio nella logica dei principi della pari dignità sociale e dell’eguaglianza, in due direzioni: per un verso, garantendo importi minimi, periodicamente ed automaticamente adeguati ai diversi tipi di pensionamento, gli assegni sociali e quelle in favore dei minorati civili nonché le pensioni dei lavoratori subordinati, autonomi e liberi professionisti; per un altro verso, estendendo a tutti indistintamente i trattamenti pensionistici dei lavoratori la normativa della perequazione automatica dettata per il Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti. Ci sono così due tratti della pensione, intesa come erogazione di somme di danaro pubblico, che ci consentono di individuare la funzione generale della medesima nella garanzia di un certo tenore di vita che il privato conserva o migliora attraverso, per l’appunto, la percezione del reddito pensionistico. L’Ispettore e la Società 5 Peraltro, se il fondamento politico della pensione può restare individuato nel principio della pari dignità sociale dei cittadini, è da osservare come tale fondamento reagisca sulla funzione generale della stessa pensione, recuperando a pieno la domanda costituzionale di «adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» proprio al fine di assicurare al pensionato un’esistenza libera e dignitosa. Consegue che la pensione costituisce, per il suo titolare, un diritto politicamente inviolabile e, come tale, si colloca tra i diritti inviolabili dell’uomo. Inoltre, essendo funzionalizzata a garantirgli la dignità nella libertà, essa diventa condizione determinante per l’effettivo esercizio e godimento, da parte dello stesso titolare, dei diritti politici e civili. Cosicché, questo modo di essere della pensione, come fenomeno economico generalizzato a garanzia e a rafforzamento del sistema democratico, ha comportato il graduale inevitabile superamento della concezione di assicurazione sociale – basata, com’è noto, sull’esigenza previdenziale di tutelare le categorie attraverso la solidarietà corporativa o di gruppo – per giungere ad esprimere un ben definito “interesse pubblico”, per il cui soddisfacimento lo Stato fa costantemente ricorso alla “solidarietà generale”. Emblematico di un tale atteggiamento e momento qualificante del cennato processo evolutivo è sicuramente il Fondo sociale. Questo, istituito con l. 21 luglio 1965, n. 903, è alimentato esclusivamente dalla finanza pubblica per provvedere non solo al pagamento degli assegni a favore dei cittadini ultrasessantacinquenni, ma anche all’erogazione di una pensione sociale di base, avente un importo eguale per ciascun titolare di pensione a carico sia del regime generale dell’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori subordinati, sia delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi. Con la sua costituzione si è così compiuto un vero ribaltamento della logica politica che fin allora aveva presieduto alla disciplina legislativa del pensionamento pubblico, garantendo ai lavoratori, in massima parte del settore privato, il godimento di una quota di pensione sganciata dalla contribuzione accreditata, ma riferita tout court proprio a quella funzione generale della pensione di cui più sopra si è detto. Cosicché, a ben guardare, la portata positiva dell’eguaglianza sociale che la formula programmatica contenuta nell’art. 3 coma 2 cost. esprime, trova nella pensione, ossia nello strumento pubblico di erogazione di ricchezza, una concreta consonanza e, quindi, un punto fermo e costante di riferimento per perseguire la parità sostanziale o di fatto. In tal modo, quella proposizione costituzionale finisce per assumere una parte determinante nella rilettura dello stesso principio d’eguaglianza, giacché quest’ultimo impedisce di introdurre distinzioni segnatamente anche in relazione alle «condizioni personali e sociali» e, quindi, ha forza per rigettare ogni eventuale forma pensionistica di irragionevole speciale favore o sfavore con riguardo a singole categorie o ad attività particolari dei cittadini. Ciò, però, non vuol dire che il principio costituzionale d’eguaglianza accolga l’ingiustificato agguagliamento delle varie posizioni previdenziali, ma solo che esso reclama la previsione di parità di condizioni giuridiche per il conseguimento di benefici economici che dipendono da identiche fattispecie pensionistiche – così, ad esempio, in materia di pensionamento per invalidità o per inabilità ovvero di vecchiaia – e che restano ineluttabilmente caratterizzati dalla loro natura pubblica. Di conseguenza, ci sembra sostenibile che il pensionamento, riferito al contesto della direttiva dell’uguaglianza sostanziale, possa essere in grado di far coincidere la nozione d’eguaglianza con la giustizia distributiva. È chiaro, d’altronde, che gli scopi perseguiti dalla disposizione costituzionale di programma sono raggiungibili solo attraverso una trasformazione materiale della realtà sottostante all’ordinamento giuridico, per cui la pensione può sempre atteggiarsi a titolo di giustificazione politica delle leggi che la riguardano, dell’organizzazione amministrativa che la gestisce e delle tecno-strutture che la rendono erogabile; tutte cose, invero, indispensabili ad attuare quel programma e a realizzare questa trasformazione. Non pare contestabile, allora, che la rimozione degli ostacoli di ordine economico debba venire compiuta nelle forme dello Stato di diritto, di talchè la riforma sociale diventa compatibile con la conservazione della parità giuridica soprattutto in tema di trattamenti pensionistici, i quali finiscono così per rappresentare momenti decisivi per comporre lo Stato sociale di diritto.

3. Due sono le proposizioni che “specificano” sul piano costituzionale il diritto del cittadino e la pretesa dei lavoratori all’erogazione della pensione. Esse costituiscono i primi due commi dell’art. 38, posto significativamente nel titolo III, concernente i rapporti economici, della Carta costituzionale. Un articolo questo che enuncia il principio dell’intervento obbligatorio e non discrezionale dello Stato nel terreno dell’esigenza sociale di liberazione dal bisogno economico quando il privato venga a trovarsi in determinate condizioni di vita. Alla funzione generale, che abbiamo riconosciuto alla pensione in termini di mantenimento o di miglioramento del tenore di vita di chi ne è titolare in virtù del fondamento politico della pari dignità sociale dei cittadini, seguono così quelle funzioni particolari e specifiche della stesa pensione, che investono tanto il cittadino quanto il lavoratore e che originano proprio dalle cennate proposizioni costituzionali, cui occorre in ogni caso riportarsi per individuarne e definirne il fondamento giuridico. Ed infatti, i primi due commi del citato art. 38 statuiscono espressamente, da un lato, che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale», dall’altro, che «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita 6 L’Ispettore e la Società in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». Consegue che il diritto di quel cittadino e dei lavoratori tutti alla pensione è un diritto individuale riconosciuto e garantito dal patto costituzionale – e, perciò, politicamente inviolabile – come posizione giuridica soggettiva direttamente attivabile nei confronti dello Stato. Questi, pertanto, è il primo soggetto passivo di quel diritto, che ben può restare diversamente soddisfatto in relazione alle scelte squisitamente politiche che nel tempo il Parlamento compie, ma che in ogni caso “deve” essere soddisfatto. Si tratta, invero, di un diritto patrimoniale del singolo, che si presenta con la caratteristica di una specifica potenzialità, vale a dire della tendenza a veder ampliato il suo contenuto economico in relazione al variare non solo del costo della vita ma anche della situazione economica del Paese. Ed è dal contenuto economico della pensione – e cioè dall’impegno che in concreto lo Stato esprime con questo strumento di pubblico intervento in termini di ripartizione e destinazione delle risorse nazionali – che una parte della dottrina prende le mosse per formulare le maggiori considerazioni critiche riguardo agli atteggiamenti complessivi assunti per soddisfare il diritto pensionistico del cittadino inabile «al mantenimento» e il diritto pensionistico del lavoratore «ai mezzi adeguati alle esigenze di vita». Per una diversificazione delle politiche previdenziali e per l’affermazione di un’autonomia di gestione dei fondi pensionistici dei lavoratori, si continua a far leva sulla tradizionale distinzione, consacrata dall’ordinamento corporativo, tra assistenza e previdenza sociale e si ipotizza un sistema giuridico dove l’area della tutela del cittadino possa risultare configurata come sostanzialmente distinta da quella pensionistica dei lavoratori. Senonché, a nostro avviso, una tale concezione non può essere condivisa. Intanto, va considerato come, una volta superata l’idea dell’assicurazione sociale e della solidarietà corporativa ed introdotta l’automaticità sia pure parziale delle pensioni dei lavoratori subordinati, la filosofia della contribuzione previdenziale abbia subito un vero e proprio rivolgimento concettuale sia nelle premesse attuariali della gestione dei fondi con il passaggio dal sistema a capitalizzazione a quello a ripartizione, sia con l’introduzione dell’istituto della fiscalizzazione degli oneri sociali, sia, infine, con lo sganciamento del calcolo del trattamento pensionistico dai contributi accreditati e, cioè, con l’avvento del sistema di calcolo cosiddetto retributivo a garanzia del mantenimento del tenore di vita raggiunto dal lavoratore. In altri termini, essendo divenuta la contribuzione un fatto ricorrente di manovra della politica economica nazionale – spesso giocata sul tavolo governativo delle trattative come strumento concorrente a contenere il costo del lavoro o utilizzato per il superamento di congiunture sfavorevoli e di crisi settoriali dell’industria – il dato discretivo di fondo tra pensione erogata senza alcuna contribuzione, pensione erogata in presenza di insufficiente contribuzione – che ha, quindi, imposto un’integrazione fino all’importo del trattamento minimo – e pensione basata su di una normale contribuzione anche figurativa per i periodi a volte rilevanti di cassa integrazione guadagni, non può più essere fornito dal concetto di assistenza in contrapposto a quello di previdenza, proprio perché il concorso finanziario diretto e indiretto dello Stato nel campo della tutela pensionistica in generale ha ormai raggiunto una consistenza davvero cospicua e – possiamo anche affermare, al momento – addirittura determinante per la puntuale e certa erogazione dei trattamenti pensionistici a favore di tutti gli aventi diritto. Consegue l’erroneità storica di evocare il contributo previdenziale per suffragare una distinzione di fondamento e di funzioni in termini di assistenza e di previdenza tra pensione del cittadino e pensione del lavoratore. Né è ammissibile porre una diversa valutazione dell’interesse pubblico a seconda della qualità del soggetto che beneficia della pensione, posto che quest’ultima conserva immutata, nell’un caso e nell’altro, la sua funzione generale di assicurare all’interessato un certo tenore di vita in relazione al principio della pari dignità sociale dei cittadini. E sarà, quindi, logico che al lavoratore che ha prodotto per lo sviluppo del Paese ed ha guadagnato un tenore di vita, concorrendo con la sua fatica al benessere dell’intera collettività, debbano essere garantiti i mezzi adeguati alle sue esigenze facendo riferimento alle condizioni economiche conseguite prima del pensionamento. Viceversa, per il cittadino inabile, il diritto al mantenimento non potrà che concretarsi nella corresponsione di un reddito pensionistico, che soltanto il Parlamento è legittimato a definire sulla base di un giudizio politico di compatibilità nella ripartizione delle risorse nazionali disponibili in un dato momento storico. Se diversificazione sussiste, se mai, essa è incentrata solo su due momenti del tutto esterni ed estranei al fondamento e alla funzione della pensione. Ed invero, il primo momento è dato dal fatto che, mentre il lavoratore è garantito subito dalla posizione assicurativa di cui diviene titolare con lo svolgimento dell’attività professionale e che, come bene patrimoniale via via arricchibile, è in grado di assicurargli al verificarsi dell’evento del bisogno il mantenimento del tenore di vita raggiunto, il cittadino trova, invece, la sua garanzia immediatamente ed esclusivamente nella legge, che, fissando il trattamento di pensione in un determinato importo, va modificata da altra legge ogni qualvolta tale importo, sia pure adeguato periodicamente al variare del costo della vita, risulti insoddisfacente rispetto sia alle esigenze sociali espresse per un dato tenore di vita che alla ricchezza prodotta dalla Nazione. Il secondo momento – che è, poi, più precisamente una conseguenza del primo – ha riguardo all’intensità della tutela pensionata, in quanto il solo L’Ispettore e la Società 7 trattamento dei lavoratori traduce, sul piano del reddito previdenziale, un certo criterio di proporzionalità degli apporti individuali al reddito nazionale prodotto. Ed infatti, qui la legge vincola, nella determinazione della misura della pensione, al costante riferimento vuoi alla retribuzione pensionabile per i lavoratori subordinati, vuoi al conseguimento di un reddito professionale per i lavoratori autonomi e per i liberi professionisti, insieme con il dato dell’anzianità, posto che il trattamento pensionistico si situa, come s’è visto, nell’ambito dell’ordinamento pubblico con una propria ragione politica e un proprio fondamento, che ne impediscono assolutamente una scomposizione della natura giuridica a seconda che esso sia erogato a favore di un lavoratore subordinato o a favore di un lavoratore autonomo o libero professionista.

4. Vero è, d’altronde, che la concezione che teorizza la pensione come salario differito è arcaicamente ancorata ai frusti schemi della logica assicurativa dei primi trattamenti di quiescenza dei dipendenti statali e dimostra tutta la sua inconsistenza e parzialità proprio quando è chiamata a dover spiegare e a dare carattere giuridico al pensionamento dei lavoratori “non” subordinati, nei confronti dei quali è sicuramente un fuor di luogo parlare di salario differito. Dà forza a tutto quanto fin qui è stato detto la considerazione, svolta dalla Corte costituzionale, secondo la quale «con la riforma del sistema pensionistico la pensione di vecchiaia ha perso l’originario carattere di prestazione correlata inscindibilmente all’ammontare dei contributi versati; che il diritto a pensione matura, a volte, in relazione a contributi soltanto giuridicamente accreditati e non effettivamente accantonati; che la pensione si inserisce in un sistema di solidarietà sociale, con concorso finanziario dello Stato, nel cui ambito i contributi servono per il conseguimento di finalità che trascendono gli interessi dei singoli. Ciò risulta evidente quando si consideri il sistema di liquidazione 8 L’Ispettore e la Società delle pensioni retributive, che prescinde dall’ammontare delle contribuzioni accreditate sul conto individuale e consente l’attribuzione di pensioni molto più elevate, ragguagliandole al trattamento economico goduto dal lavoratore nel periodo in cui ha percepito le maggiori retribuzioni. Le funzioni particolari della pensione, poi, possono individuarsi essenzialmente nella tutela della vecchiaia e nella tutela dell’invalidità, intesa in senso lato. Peraltro, è da rendere avvertiti come nella logica della tutela della vecchiaia vadano ricomprese anche tutte quelle forme previdenziali che prevedono il pensionamento del lavoratore al raggiungimento di una data anzianità di lavoro e di contribuzione, legata o no al compimento di un’età prestabilita. Sono forme queste, infatti, che manifestano funzioni specifiche della pensione, nel senso che si presentano con la peculiarità di poter soddisfare, in un momento precedente il perfezionamento del requisito dell’età pensionabile, l’interesse del privato di abbandonare l’attività lavorativa e di godere del reddito pensionistico intanto maturato. Allo stesso modo, nella logica della tutela dell’invalidità, intesa in senso lato, si collocano tutte quelle forme di intervento pubblico, le cui “specifiche funzioni” sono quelle di soddisfare, attraverso, appunto, il pensionamento, i bisogni economici determinati da cause minorative delle capacità di lavoro e/o di guadagno del lavoratore oppure da morte di quest’ultimo. Esprimono queste funzioni specifiche della pensione – e vanno così senz’altro ricompresi giuridicamente nella nozione di pensione – anche i trattamenti, denominati «rendite», erogati agli infortunati sul lavoro o a coloro che hanno contratto una malattia professionale ovvero ai superstiti quando la morte del lavoratore sia derivata dall’infortunio o dalla malattia professionale. V’è, poi, da rilevare come numerose e distinte, nell’ambito dei diversi ordinamenti che tutelano le varie categorie dei lavoratori subordinati e non, siano le fattispecie legali previste per il pensionamento dei lavoratori minorati. Tuttavia va osservato che le differenze che tali fattispecie presentano tra loro vanno sostanzialmente ascritte ad una maggiore o minore intensità di tutela in relazione alle cause che hanno dato luogo allo stato di bisogno economico. Così, accanto all’ordinaria pensione d’invalidità troviamo spesso le pensioni cosiddette «privilegiate» a ragione della causa di lavoro o della finalità di sevizio che ne ha imposto l’erogazione, la pensione di inabilità per i liberi professionisti, come, ad esempio, quella di cui agli art. 4 delle citate l. n. 576 e l. n. 6, nonché la pensione d’invalidità specifica prevista in favore dei lavoratori dello spettacolo dall’art. 8 d.p.r. n. 1420, cit. Sufficientemente organico può dirsi, infine, il sistema di tutela pensionistica del cittadino inabile e precisamente quello realizzato in favore dei mutilati ed invalidi civili, dei sordomuti e dei ciechi, avuto riguardo anche del fatto della continuità dell’erogazione del trattamento nelle forma dell’assegno sociale con il compimento del sessantacinquesimo anno di età dell’interessato (art. 2 l. 13 ottobre 1969, n. 743). In conclusione, è da dire che, mentre il rapporto tra pensionamento di vecchiaia e pensionamento di anzianità implica una concezione di quest’ultimo trattamento in un certo senso come vecchiaia anticipata, il rapporto tra pensionamento di vecchiaia e pensionamento d’invalidità tende, invece, a superare una tale concezione e a farsi sempre più divaricato a ragione del fatto che si considera l’invalidità come lunga malattia, onde il relativo trattamento pensionistico, con esclusione, però, di quello erogato in modo permanente dalla tutela infortunistica, non assume mai carattere vitalizio, restando ferme le previsioni legislative della revisione delle condizioni di minorazione entro determinati tempi e della sospensione dell’erogazione per il caso che il pensionato non si presti alla revisione medesima.

5. La pensione di anzianità, introdotta nel 1965, abrogata nel 1968 e nuovamente riproposta nella legge n. 153 del 1969 senza alcuna precisazione di doverosa copertura finanziaria, è un istituto pensionistico fuori dalla Costituzione e, quindi, da eliminare in base al risultato del referendum 4 dicembre 2016 altamente confermativo di quella esclusione costituzionale. Essa è rimasta malamente disciplinata nel tempo, determinando un guazzabuglio di disposizioni contraddittorie nell’ambito del sistema contributivo tra contributi obbligatori, figurativi e volontari e quelli da riscatto, nonché da norme discriminatorie tra lavoratori e lavoratrici circa l’età che perfeziona il requisito soggettivo del relativo pensionamento. Pertanto, è contro la confermata Costituzione del 1948 l’idea normata di porre un’alternativa al trattamento di vecchiaia da prevedere, pur sempre, con una età pensionabile unica per i lavoratori e per le lavoratrici in forza all’art. 3, prima comma, Cost. D’altronde, non corrisponde più alle esigenze dei giorni di oggi l’obiettivo di premiare la lunga attività lavorativa e, nel contempo, per favorire l’uscita dal mercato del lavoro di chi sceglie di anticipare il trattamento di vecchiaia, rinunciando - come sarebbe stato comunque doveroso – a cumulare la pensione di anzianità acquisita con la retribuzione. Ed infatti, l’art. 22 della legge n. 153 del 1969 riconosceva agli iscritti al regime generale il diritto alla pensione di anzianità a condizione che: a) fossero trascorsi trentacinque anni dalla data di inizio dell’assicurazione, ivi compresi i periodi di servizio militare e quelli equiparati riconosciuti dalla legge; b) potessero far valere trentacinque anni di contribuzione effettiva, volontaria e figurativa; c) non presentassero attività lavorativa subordinata alla data della presentazione della domanda di pensione, con eccezione nei confronti di chi svolgesse lavoro subordinato in agricoltura, all’estero o in qualità di addetto ai servizi domestici e familiari. Sul punto è opportuno rammentare come il Consiglio di amministrazione dell’INPS stabilisse, con deliberazione 17 gennaio 1975, n. 10, in Atti Ufficiali, 1975, 84, ss, che il diritto L’Ispettore e la Società 9 alla pensione di anzianità potesse venire riconosciuto nei confronti dei lavoratori richiedenti, i quali, all’atto della presentazione della domanda svolgessero attività lavorativa subordinata all’estero, ovvero come salariati fissi, giornalieri di campagna e assimilati, o come addetti ai servizi domestici e al disposto di cui all’art. 23-quinques della legge n. 485 del 1972, che aveva sancito, con riguardo ai predetti lavoratori subordinati, l’inapplicabilità del divieto di cumulo della pensione di anzianità con la retribuzione. Sicchè, in quei tempi, nella pensione di anzianità lo stato di bisogno veniva rilevato dal concorso di ben due elementi oggettivi, di cui uno rappresentato dalla rilevante anzianità di assicurazione e di contribuzione che realizzava positivamente il momento soggettivo della fattispecie in termini di durata della tutela previdenziale. Il secondo momento, invece, era dato dalla mancanza di un reddito da lavoro subordinato. Da ciò conseguiva che la congiunzione del tempo trascorso come soggetto protetto con quest’ultimo dato negativo dell’inesistenza di un lavoro subordinato evocava il concetto di anzianità pensionabile alla stregua di un evento previdenzialmente tutelato. La conferma di un tale assunto ben poteva venir tratta dalla circostanza che il trattamento di anzianità restasse sospeso dal momento in cui si sarebbe instaurato un nuovo rapporto di lavoro subordinato. Al fine, poi, di evitare una disuguaglianza di trattamento con il pensionato di vecchiaia che lavorasse e che avesse, quindi, titolo a cumulare parzialmente la pensione con la retribuzione, la legge finì per equiparare a tutti gli effetti la pensione di anzianità a quella di vecchiaia, allorquando il titolare della prima compisse l’età stabilità per il pensionamento di vecchiaia. Occorre, inoltre, rendere avvertiti come, anche nell’ambito di questa eccezionale forma pensionistica, la legge avesse previsto, con norme di carattere straordinario, un’anticipazione del trattamento di anzianità in favore di alcune categorie di lavoratori iscritti al regime generale. Così, da un lato, l’art. 37 della legge n. 416 del 1981 disponeva che i lavoratori poligrafici, posti in trattamento straordinario di integrazione salariale, potessero esercitare, entro sessanta giorni dall’ammissione a detto trattamento, ovvero nel periodo di godimento del trattamento medesimo, entro sessanta giorni dal perfezionamento dell’anzianità contributiva ridotta a trenta anni, la facoltà di optare per il pensionamento di anzianità, godendo del beneficio di un aumento fittizio dell’anzianità contributiva di un periodo pari a cinque anni. Dall’altro, l’art. 18 della legge n. 155 del 1981 stabiliva, limitatamente al periodo dall’8 maggio 1981 al 31 dicembre 1982, che, qualora gli operai dipendenti da imprese dichiarate in crisi, esercenti miniere, cave e torbiere potessero far valere nel regime generale almeno ventisette anni di iscrizione e di contribuzione e fossero addetti complessivamente, anche se con discontinuità per almeno quindici anni a lavori in sotterraneo, la pensione de qua sarebbe stata determinata sulla base dell’anzianità contributiva prevista per la liquidazione della pensione di anzianità. Va soggiunto, poi, come quest’ultima decorra dal primo giorno del mese successivo a quello di presentazione della relativa domanda. Peraltro, ove i requisiti per il diritto si dovessero perfezionare in un momento successivo alla domanda durante la fase della sua istruttoria o nel corso del contenzioso amministrativo, il trattamento sarebbe decorso dal primo giorno del mese successivo a quello in cui i requisiti stessi si fossero verificati, in relazione a quanto ha disposto, in via di principio l’art. 18, secondo comma, del d.P.R. n. 488 del 1968. A tale ultimo principio, d’altra parte, si è richiamata la stessa prassi amministrativa al fine di assicurare l’ultrattività della domanda anche nell’ipotesi in cui la condizione dell’attualità della non occupazione nel momento della presentazione della correlativa domanda di pensione venisse a realizzarsi in un momento successivo a quello della data di inoltro dell’istanza pensionistica. Ed infatti, l’INPS ha accordato validità alla domanda del lavoratore ancora occupato allo scopo di fargli conoscere l’entità della contribuzione accreditata e, quindi, la sussistenza dei requisiti soggettivi, che, se perfezionati, avrebbero potuto consentire all’interessato di presentare, senza pericoli o dubbi sull’erogabilità del trattamento, le proprie dimissioni da lservizio e, nel contempo, di presentare ricorso al competente comitato dello stesso INPS in modo da ottenere la pensione di anzianità dal primo giorno del mese successivo a quello della data di cessazione del rapporto di lavoro per intervenute dimissioni (Cfr.: Circ. INPS 27 aprile 1970, n. 53406 Prs. E n. 9638/0, in Atti Ufficiali, 1970, p. 483). Tutto quanto precede costituisce un primo spaccato di una forma di pensionamento al di fuori della Costituzione, la quale è stata oggetto, nel tempo, di manovre le più disparate, giocate da politici e sindacalisti in modo davvero riprovevole e contro gli interessi nazionali.

6. La pensione di anzianità va cancellata e va rafforzato il Fondo pensione dei lavoratori dipendenti nell’ambito del regime generale dell’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, cercando di riparare al danno procurato dalla ricordata legge “Mosca”(ben 12 miliardi di euro) e dalle leggi 12 gennaio 1977, n. 4, 22 dicembre 1980, n. 932 e 9 giugno 1999 n. 172. Tali leggi hanno riaperto i termini previsti in esse. La responsabilità circa la fondatezza o la stessa veridicità dei fatti posti a base dell’inerente domanda di ciascun interessato è rimasta fissata, nel tempo, in capo al rappresentante legale del partito o del sindacato che aveva curato l’inoltro della medesima alla competente Commissione ministeriale per una decisione, rimasta sempre inoppugnabile, circa la sua legittima efficacia. Davvero avvilente si presenta tutt’oggi l’aggredito regime generale dell’invalidità, la vecchiaia e i supersiti! La cultura della pensione “facile” o del vitalizio accordato con denaro pubblico 10 L’Ispettore e la Società costituisce una rottura tra il concetto di legalità per le pari dignità sociali dei cittadini e quello dell’eguaglianza sostanziale per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che affliggono i medesimi (art. 3 Cost). A ciò occorre aggiungere responsabilmente la grave situazione dei giovani disoccupati, i quali, secondo l’ISTAT, alla fine del mese di novembre 2016 erano pari al 39,4%. Attualmente il diritto alla pensione di anzianità si perfeziona al raggiungimento di una quota data dalla somma tra l’età anagrafica minima richiesta e almeno 35 anni di contributi. Per i lavoratori dipendenti e iscritti ai fondi pensione sostitutivi o integrativi, a far tempo dal 1° gennaio 2011 è necessario raggiungere quota 96 con almeno 60 anni di età (quota 96: 60 anni di età + 36 di contributi oppure 61 anni di età + 35 di contributi). e dalle leggi 12 gennaio 1977, n. 4, 22 dicembre 1980, n. 932 e 9 giugno 1999 n. 172. Per i lavoratori autonomi è necessario raggiungere, invece, quota 97 con almeno 61 anni di età (quota 97: 61 anni + 36 di contributi oppure 62 anni + 35 di contributi). Va precisato come il requisito minimo contributivo di 35 anni per il raggiungimento della quota deve essere perfezionato escludendo la contribuzione figurativa per disoccupazione ordinaria e malattia. Tuttavia, si può ottenere l’erogazione di una pensione di anzianità a prescindere dall’età nel caso in cui l’interessato possa far valere una anzianità contributiva di almeno 40 anni. In tali ipotesi, se il requisito minimo dei 35 anni di contribuzione effettiva è stato raggiunto, viene utilizzata anche la contribuzione figurativa per disoccupazione e malattia. Detto quanto sopra, è importante segnalare come la pensione di anzianità sia stata erogata così massicciamente a causa della legge Mosca del 1974 e dalla sua riapertura dei termini in essa previsti nella legge del 1977, da determinare un vero e proprio depauperamento molto significativo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti. Veniva così compromessa la stessa sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, mettendo in crisi lo stesso rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo. Per questi motivi furono emanate le leggi n. 335 del 1995 e n. 449 del 1997. Senonchè, fu necessaria l’emanazione della legge 243 del 2004 allo scopo precipuo di condizionare il diritto alla pensione di anzianità a requisiti di età anagrafica più severi di quelli previsti dall’allora vigente legislazione. La verità è che con l’elevazione dell’età pensionabile veniva consentito il prolungamento del rapporto di lavoro con un duplice effetto di un ulteriore versamento di contributi previdenziali nonché della più lontana erogazione delle pensioni di anzianità. Successivamente, per ridurre gli effetti di una elevata spesa pensionistica espressamente riguardante la pensione di anzianità, interveniva la legge 247 del 2007 che prevedeva un aumento più graduale nel tempo del requisito dell’età anagrafica con la conseguenza di introdurre, a far tempo dal 1° luglio 2009, il sistema delle “quote” per il perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia. Da ultimo, si sottolinea come la predetta disciplina delle quote non vada applicata ai lavoratori iscritti agli enti previdenziali privatizzati, ai lavoratori, i quali erano stati autorizzati, fino al 20 luglio 2007, alla prosecuzione volontaria della contribuzione, nonché, in via sperimentale fino al 31 dicembre 2015, le lavoratrici optanti per la erogazione della pensione di anzianità secondo i criteri di calcolo del sistema contributivo. Viceversa, le citate nuove disposizioni vanno applicate anche nei confronti dei lavoratori iscritti presso la gestione speciale separata dell’INPS, di cui all’art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995.

7. Infine, sempre allo scopo di assicurare la sostenibilità del sistema pensionistico, sono state adottate disposizioni sui pensionamenti, le quali, hanno previsto, di norma, anche il perfezionamento del diritto alla pensione di anzianità con un anticipo di cinque o più anni riguardo al requisito oggettivo dei 35 anni di contribuzione. Sicché, a nostro avviso, non possiamo considerare valida l’affermazione secondo cui la pensione di anzianità dovrebbe intendersi come una pensione di vecchiaia anticipata, stante, per l’appunto, l’indicazione dell’art. 38, comma 2°, della Costituzione, che non ammette altre forme di pensionamento oltre a quelle concernenti l’invalidità o l’inabilità e la vecchiaia medesima. Pertanto, è la Costituzione ad affermare che la fornitura dei mezzi necessari per vivere, nei confronti di ciascun lavoratore interessato, deve essere garantita e assicurata soltanto in caso di vecchiaia a seguito del perfezionamento del requisito soggettivo della definita età pensionabile. Ne’ è possibile recuperare il concetto di vecchiaia anticipata a seguito della previsione legislativa di certi vantaggi in favore dei lavoratori, i quali, anche se hanno maturato il diritto alla pensione di anzianità, volontariamente ne ritardano il pagamento. Atteso, infine, l’inutilità sociale e finanziaria del pensionamento di anzianità, si suggerisce, proprio al fine di stabilizzare il rapporto tra spesa pubblica pensionistica e prodotto interno lordo, l’immediata abrogazione della forma pensionabile di anzianità, malamente utilizzata da politici e sindacalisti a far tempo dall’entrata in vigore della legge Mosca del 1974. Ai fini di giustizia sociale e di solidarietà tra le generazioni, s’impone oggi nei confronti dei giovani ultradiciottenni di prevedere l’erogazione della pensione di vecchiaia mediante la sua liquidazione attraverso il sistema di calcolo c.d. retributivo con riferimento agli ultimi dieci anni di lavoro prima del compimento dell’età pensionabile. Va perciò semplificato l’attuale sistema pensionistico eliminando gli orpelli delle diverse forme di tutela previdenziale che impoveriscono l’inalienabile e fondamentale Fondo pensione dei lavoratori dipendenti. Sull’interrogativo di una società di “adultescenti” e di precari, c’è chi si è posto le seguenti domande: L’Ispettore e la Società 11 “Che cosa può accadere a una società democratica quando diventa imbarazzante augurare ai giovani “buon lavoro”? Quella italiana è davvero una società di “adultescenti e di precari”? Quali sono i principali cambiamenti in corso – sia a livello sociale e politico, sia a livello antropologico – a causa dei quali tanti giovani sono lasciati senza lavoro? Perché i giovani stanno soffrendo uno sfruttamento negli stages, nei lavori mal o mai pagati, negli affitti proibitivi, nelle promesse ancora non realizzate dal Governo?”. Queste domande presenti nel dibattito pubblico sono state oggetto del Convegno organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana in Salerno, 24-26 ottobre 2014, e riproposte in un articolo su La Civiltà Cattolica n. 3946 del 15 novembre 2014 da F. OCCHETTA S.I., p. 357 ss. Tale Autore mette in evidenza come una società in tempo di crisi abbia bisogno di adulti portatori di principi e regole con le quali crescere e accogliere le giovani generazioni nel mondo del lavoro. L’ “adultescenza” sarebbe conseguenza e causa di una cultura in cui i giovani che desiderano uscire di casa sarebbero spesso costretti a ritornarvi loro malgrado in quanto colpiti da una crisi sempre più globale. Persino la Svezia, Paese modello, è costretta a fare i conti con i boomerang kids, “i figli che sconvolgono il tran tran familiare con la forza di un contraccolpo imprevisto, di nuovo in famiglia dopo aver spiccato il volo per studiare, lavorare e persino sposarsi”. Inoltre, egli avverte come il rischio di escludere dal mercato economico una o più generazioni potrebbe bloccare il Paese nel cammino verso la competizione globale, per cui, richiamato il contenuto dell’art. 4 della Costituzione, sostiene che il “dovere al lavoro” va reinterpretato in termini più consoni all’attuale contesto socio-enomico. Gli studi più avanzati dimostrano che il dovere al lavoro e, insieme con esso, l’educazione al valore del lavoro sono una forma di affectio societatis. Se l’adempimento del dovere al lavoro vale come “qualificazione del cittadino”, l’educazione al valore del lavoro dei giovani vale come “formazione al cittadino”. Infine, l’Autore in parola afferma che, per restituire ai giovani la possibilità di progettarsi il futuro, occorrerebbe rifondare un “patto strategico generazionale”, un provvedimento quadro che ripensi il valore delle pensioni, introduca agevolazioni fiscali per le nuove imprese, un trattamento fiscale preferenziale per gli utili non distribuiti, attrazione degli investimenti esteri, fidi e garanzie per le banche che finanziano imprese che assumono, rispetto dei tempi di pagamento della pubblica amministrazione, snellimento delle incombenze amministrative e sostegno all’occupazione femminile. Su questi temi spunti significativi sono venuti dal “Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2014” del Censis e dalle riflessioni svolte dal prof. Romano Prodi in materia di stato sociale nell’obiettivo politico di ripartire dal welfare per sostenere lo sviluppo (editoriale del quotidiano Il Messaggero del 14 dicembre 2014, pp. 1 e 24). Egli prende avvio da un messaggio pessimistico che viene ogni giorno inviato e che si fonda sul presupposto che la spesa sociale sia improduttiva e che il welfare-state sia, per ciò stesso, nemico dello sviluppo. Non ci possiamo esimere, con giusta umiltà intellettuale, dall’aver riconosciuto e dibattuto, in più occasioni, nel campo scientifico del diritto della previdenza sociale, l’assunto per cui lo stato sociale rimane la più grande conquista del secolo scorso (sull’argomento si veda soprattutto la nostra monografia su La previdenza sociale, volume 9 dell’Enciclopedia giuridica del lavoro, fondata da G. MAZZONI e diretta da G. SUPPIEJ, VII edizione, Cedam, Padova, 2000). Nel rilevare che ci sono sistemi raffinati di welfare con ricadute in maggiore equità e maggiore crescita per i cittadini interessativi e, per contro, sistemi nei quali il welfare pubblico viene gravato da sprechi – quali esemplificativamente più sopra ricordati in materia pensionistica – e concorrono a bloccare la crescita nonché a mantenere categorie parassitarie, Prodi denuncia, con ragionata tristezza, che la giustizia sociale sta andando fuori moda, mentre dovrebbe essere l’obiettivo primario di ogni scelta politica (ivi, p. 24). Conferma di ciò può ben essere tratta proprio dal citato “Rapporto Censis”, dove le introduttive “Considerazioni generali” prendono avvio dalla seguente constatazione: “Dopo anni di trepida attesa, la ripresa non è arrivata e non è più data come imminente e quasi si ha il pudore, forse la stanchezza di continuare a usare un termine ormai consumato nel racconto collettivo” (ivi, p. XI). Il Presidente del Censis, Giuseppe De Rita, che ha sempre curato la parte prima delle “considerazioni generali” del Rapporto in discorso, nel respingere un proposito continuista dei tradizionali pensieri collettivi, ha inteso richiamare due verità: la prima, banale e kirkegaardiana insieme, è che non è pensabile una ri-presa dello sviluppo senza un’adeguata ri-flessione della base reale su cui operiamo; la seconda, forse ancora più banale, è che, come tutte le società complesse, la nostra società cambia non attraverso “svolte”, ma attraverso processi di “transizione”, necessariamente lenti o silenziosi. Alla luce di una realtà da tempo chiara, saremmo una società molto differenziata, molecolare, ad alta soggettività, piena di aspettative e di obiettivi diversi; società definita da qualche parte come “liquida”,comunque indistinta e sfuggente a ragione del fatto che essa non è più descrivibile con forme e figure delineate e significative, vale a dire senza radicamenti.

8. Ast praecepta quaevis de re sociali, non tantum sunt in medio ponenda, sed etiam re ipsa usurpanda: quod potissimum valet de Ecclesiae doctrina, quae ad res sociales attineat; quippe cuius lux sit veritas, finis sit iustitia, via princeps sit amor (Una dottrina sociale non va solo enunciata, ma anche tradotta in termini concreti nella realtà. Ciò tanto è più vero della dottrina sociale cristiana, la cui luce è la Verità, il cui obiettivo è la Giustizia e la cui forza propulsiva è l’Amore) SANCTUS IOANNES PP. XXIII.